Sarah Angela e Angelo Andrea scendono lungo Via San Lorenzo con le Ali incerte e palpitanti: è l’emozione e la paura dell’attore che non sale sul palco da un po’ e non sa più se reggerà la scena. Cerchiamo di distrarci, facciamo a gara su chi è reduce dalla giornata più faticosa, respiriamo a pieni polmoni un’aria carica di euforia, smaniosi di scoprire come ci accoglierà Genova, dopo tanto tempo. La prima risposta ci piomba addosso come una simpatica beffa: il nostro camerino (una vecchia cabina telefonica adiacente alla fermata di Caricamento) è stato divelto. Non esiste più, lavori in corso. Ci scappa da ridere, il messaggio è inequivocabile: da stasera i vecchi punti di riferimento non valgono più, partite dal vostro smarrimento, vi darà più forza che qualsiasi rassicurante tracciato di briciole.
Non facciamo in tempo a metabolizzare, che una tromba d’aria ci prende per le ali e ci trascina via, in un viaggio più lungo e per terre più lontane, forse, di quanto fossimo pronti a scommettere.
Sul primo autobus due strani figuri ci chiedono chi siamo, con la bonarietà un po’ rozza di chi forse a questa domanda non ha mai saputo rispondere. “Noi siamo angeli” - “Ah sì?? Noialtri ci abbiamo provato a bussare lassù, ma ci hanno rimandato indietro con un calcio nel sedere. In realtà neanche quaggiù ci hanno voluto. Non siamo abbastanza buoni per il Paradiso e non siamo abbastanza cattivi per l’Inferno. Solo in via del Piano 2 ci vogliono.” Attaccano a parlare di giustizia e di leggi, umane più che divine, di carcere e di processi: mostri ciechi e autocompiacenti che sanno inghiottire solo prede facili e innocue, trascurando le vere cancrene di una società che non va certo a rotoli per colpa di cristi come loro. Il Gatto e la Volpe giocano a palla con l’indignazione come il cielo e gli inferi giocano a palla con loro, coinvolgendo le nostre menti in una Maratonda di pensieri gravi e irrisolti. Neanche il motore del bus in partenza varrà ad arrestare quel cerchio frastornante di ingenui ammonimenti: stanno per partire, ma a fine serata li rivedremo scendere da quello stesso autobus su cui si erano allontanati. Forse, lì dove erano diretti non li avevano voluti. “Comunque siete una bella coppia, siete fidanzati?” - “No, gli Angeli non si fidanzano!” - “Ah. E di cosa vivete??” Hanno ragione, che discorsi! D’amore si vive, d’amore si vola.
Tre ragazze ci richiamano dal nostro temporaneo stordimento, con la freschezza e l’entusiasmo di cui avevamo bisogno. Tra coriandoli, caramelle e risate generose scatta la caccia ai ricordi: di quando Erika è caduta dalla bicicletta procurandosi una piccola cicatrice al sopracciglio sinistro, di quando Angela ha rubato la sua prima sigaretta al pacchetto di Benson Gialle di sua madre. Deborah ci presenta poi un suo amichetto che le ha appena raggiunte: Jonathan, sedici anni, nato a Palermo e arrivato a Genova quando di anni ne aveva quattro, “il perché lasciamolo stare, brutte storie”. Hanno fatto amicizia nientemeno che sull’autobus, muovendo la testa a ritmo di musica e scambiandosi risate d’imbarazzo: la verità è che noi Angeli scendiamo tra le persone per riscoprire ogni volta che le ali in spalla le abbiamo tutti.
Dobbiamo solo averne cura e non permettere a nessuno di tarparle.
Un uomo, sudamericano, ha subito gravi danni alle sue ali, e gli effetti collaterali sono micidiali. Si volta a guardare sprezzante la stretta di mano tra noi e Samba, un ragazzo africano che ha risposto con gioia al nostro primo cenno. Quando tento di estendere il saluto anche a lui, la reazione è una sferza: “So benissimo, signorina, che lei adesso mi saluta perché è vestita così e siamo davanti a tutti. Ma se la incontro domani o tra vent’anni per la strada, lei non mi saluterà e non mi riconoscerà. Io odio Voi, la vostra finta nobiltà. Mi dispiace ma è così, voi italiani siete questo, siete falsi e mafiosi. Il mio nome? E’ troppo difficile, non glielo dico. Ho fatto il conto: sa quanti giorni della mia vita ho persi per spiegare il mio nome agli altri senza venirne a capo? Centoventidue! Non ne sprecherò un altro.” A nulla valgono le proteste di Samba (“Se qualcuno mi saluta io lo saluto!”), né il mio agguerrito proposito di placare i sentimenti di quell’uomo. La donna per cui è venuto in Italia l’ha tradito; il negozio che era riuscito ad aprire, è stato costretto a chiuderlo a causa delle richieste di pizzo. “Sì, anche qui a Genova, altro che sud!” La sua voce avrebbe un suono calmo e garbato, a non capire le parole affilate che scaglia, ma quegli occhi sottili puntati su di noi stillano un odio e un disprezzo tanto intensi, che non riusciamo ad arginarne il corso. Il bus è partito, io vorrei aspettare la fine di quell’invettiva furiosa, perché tutti i sentimenti meritano accoglienza. Ma la fine non arriva e alla seconda fermata Angelo Andrea mi ricorda che dobbiamo scendere. Saluto l’uomo che il suo nome è stanco di dirlo, lui mi guarda col trionfo negli occhi, perché vede nella nostra fuga apparente la conferma di ogni sua parola. “Sì, certo, dovete andare. Andate, andate!” Non ho fatto in tempo a smentirlo. Strada facendo raccolgo la rabbia, pensando per la prima volta a quale onore e quale onere sia, essere un Angelo Italiano.
Un po’ malconci e doloranti saliamo sul terzo bus della serata, senza immaginare che anche qui sopra rimarremo a partenza effettuata, per due o tre fermate. Il tempo che Joel si tolga gli auricolari dalle orecchie e possa scrivere sul mio quaderno di volo una sua poesia, in spagnolo, che arriva dritta al punto:
Se un giorno hai bisogno di ammazzarmi
Non hai bisogno di un pugnale
Né di mandare qualcuno ad uccidermi
Se soltanto mi dirai ti odio
La mia morte sarà fatale.
Queste parole, provvidenziali, piovute dalla penna di un ragazzetto vispo e irriverente, lasciano senza fiato noi due Angeli di mala fede: non ci eravamo ancora arresi all’idea di essere capitati in un luogo e in un tempo stregati, dove la nostra apparizione alata non era che una delle tante, in mezzo a uno stormo molto più vasto di quello che ci ha partoriti.
Rifiuto e calore ci inseguono, in un vortice di incontri che si parlano tra loro, e noi non possiamo che stare al gioco, polmoni gonfi, orecchie tese, piume sudate nonostante il freddo gelido. Un altro viaggio ci attende, questa volta su invito di Davide: “Dai, salite con me, questa sera voglio offrirvi da mangiare.” Gli Angeli non mangiano in servizio, ma lui ci vuole al suo fianco e noi lo seguiamo fino a Dinegro: nel frattempo un’altra pagina del quaderno si riempie, con una mano gigante che incide sul pianeta Terra le iniziali “S. A.” (Sarah Angela), e con altri versi, “di lacrime e di sorrisi perduti”. In un primo momento, Davide ci ha rivolto sguardi e parole compassionevoli: “Per andare in giro vestiti da Angeli vuol dire che non avete proprio niente da fare. Quanti anni avete? Di che quartiere siete?” Da dove viene lui, non c’è posto per certi sognatori. “Non pensate male, io sono buono, ma tanto il mondo non apprezzerà mai la gente come voi. Non arriverete mai da nessuna parte.” Mentre lo dice, guarda i nostri occhi come guardandosi allo specchio, e questo basta a chiarire l’equivoco: lo scherno malinconico a cui sottopone noi e se stesso cela una comunanza d’anime più profonda e più fertile del terreno arido su cui è abituato a camminare. Thor è il suo nome d’arte, è perito chimico ma lavora come operaio e buttafuori, addestra cani a cui dà i nomi delle divinità greche, ci parla di mitologia scandinava, scrive poesie e rimpiange tra i denti di non essere nato “con il culo al caldo”. “Come Moreno, lo conoscete?” - “Sì, lo conosciamo” (bugia) - “Ecco, è sempre stato sul cazzo a tutti”. Io e Angelo Andrea annuiamo comprensivi, a quanto pare Moreno è il nome di chi fa girare il mondo nel verso sbagliato, tanto basta per conoscerlo, e conoscendolo lo si allontana.
Una bella scarpinata ci aspetta per tornare al nostro posto di combattimento, un senso di vertigine accompagna i nostri passi. Siamo saturi, increduli, storditi. Fortuna che a Caricamento arrivano i rinforzi: Angelo Floppy chiude il volo con noi in bellezza, giocando, ridendo e suonando, in compagnia degli ultimi passeggeri della serata.
Solo quando scocca la mezzanotte, ricordo di avere un occhio verde disegnato sulla guancia. Quella mattina mi ero svegliata con la congiuntivite, e avevo paura che due occhi malconci non mi bastassero per volare ad alta quota. Peccato che me ne fossi completamente scordata. L’avevo lasciato lì in disparte, a spiare la serata a mia insaputa. Sarà mica stato lui a smuovere quel turbine di vite attorno a noi? Svelato il mistero…Per un istante lascio aperto solo lui, affidandogli così il bottino di ricordi raccolti.
Sarah Angela
martedì 8 marzo 2011
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